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‘Un paese vuol dire non essere soli’. Il 27 agosto 1950 se ne andava Cesare Pavese

By 26 Agosto 2017Agosto 31st, 2017Cultura

LIMITI-CONFINI, collettiva al Grande Museo del Duomo di Milano. 21 settembre – 4 ottobre 2017

NOI, personale di Francesca Piovesan allo Studio Museo Francesco Messina. 7-24 settembre 2017

Anteprima corto “Quali sono i limiti e i confini?” al Museo del Novecento di Milano

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In un mondo di esili ed esiliati, di profughi e di cervelli in fuga all’estero, il pensiero di Cesare Pavese risulta quantomai attuale e contemporaneo. Lo scrittore rifletté molto sul “mestiere di vivere”, quella difficoltà e incertezza che permea la vita dell’uomo contemporaneo. Morì suicida il 27 agosto 1950 al culmine del successo a 42 anni, non riuscendo a sopportare e colmare la sua solitudine esistenziale e il senso di vuoto. Nel 1938 con Il compagno aveva vinto il premio Salento mentre nel 1949 con La bella estate il premio Strega. Tutto ciò non bastò e nella notte tra il 26 e 27 agosto 1950 lo scrittore si tolse la vita in una camera dell’ albergo Roma di Torino, ingoiando una forte dose di barbiturici. Lasciò scritto sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò (un suo libro che raccoglie 27 brevi racconti):

«Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi»

E’ semplicistico pensare che Cesare Pavese si sia suicidato per amore. Se è vero che da poco si era conclusa la sua relazione (o amore a senso unico) con l’attrice americana Connie Dowling, bisogna ricordarsi che nel suo “diario”, pubblicato postumo e intitolato “Il mestiere di vivere”, scriveva: «Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla». Ateo e suicida ebbe un funerale civile, senza commemorazioni religiose. Riflettendo sui difficili giorni che vive l’Italia e l’Europa tra paura per il terrorismo, per l’immigrazione e per la povertà crescente, abbiamo scelto di ricordare Cesare Pavese con un frammento per noi emblematico, tratto da quello che reputiamo il suo più bel racconto La luna e i falò (pubblicato nel 1949).

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.
Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.” [margin10]

Sabino Maria Frassà per Ama Nutri Cresci, 26 agosto 2017