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Nicla Vassallo: La libertà della scienza, i rischi della tecnologia

By 25 Settembre 2020Cultura

Ritengo cruciale per i filosofi della scienza nonché per gli scienziati comprendere al meglio il rapporto tra scienza (o scienze) e tecnologia (o tecnologie). In proposito, occorre partire dalla distinzione tra conoscenza proposizionale, di cui fa parte la conoscenza scientifica, e la sua applicazione tecnica e/o tecnologica, di cui fa parte la conoscenza del saper fare.

A differenza di quanto purtroppo spesso accade, perlomeno nel nostro paese, si dovrebbe considerare la conoscenza scientifica, conoscenza per l’appunto proposizionale, libera e non soggetta ad alcuna critica etica: errato parlare di bioetica,  come se l’etica concernesse un’unica scienza. Libera sempre a patto che non impieghi esperimenti abominevoli: si pensi a quelli della Germania nazista. A risultare soggette a considerazioni etiche, sempre che si stabilisca la normatività dell’etica (in proposito disponiamo di buone ragioni per non aderire alla proposta di George Moore sulla sopravvenienza?), rimane la tecnologia.

Scetticismo globale temporaneamente a parte, perché mai non dovremmo conoscere in senso proposizionale e, in particolare, scientifico, senza far confusione tra scienze astratte, quali la matematica, e scienze empiriche? Limitando la nostra attenzione a queste ultime, occorre prestare alla conoscenza scientifica più che un’attenzione, avendo ben in mente che abbiamo abbandonato da tempo il verificazionismo, ma occorre capire pure se tramutare, e soprattutto in qual modo, tale conoscenza in una qualche applicazione.

Sempre in breve, bastano due esempi per afferrare il punto. Se la medicina nucleare ci aiuta a combattere i tumori, e ciò non è affatto eticamente riprovevole, anzi, la nostra conoscenza proposizionale sull’energia atomica può trasformarsi nell’applicazione tecnologica delle bombe atomiche, o bombe A, ovvero di bombe a fissione nucleare, ordigni esplosivi capaci, tra l’altro, di sterminare donne e uomini, su cui si sceglie di gettarle. Applicazione eticamente biasimevole, almeno secondo Albert Einstein e Bertrand Russell: perché non rileggere il loro Manifesto del luglio 1955, a inizio della guerra fredda, documento cofirmato da altri undici imminenze intellettuali e scientifiche, ove si viene sollecitati a discutere dei rischi che corre l’umanità nella produzione tecnologica di armi nucleari? La notorietà di tale manifesto non riesce a negare l’impegno di un fisico italiano d’eccezione quale Carlo Bernardini nell’USPID, l’Unione di Scienziati per il Disarmo il cui principale obiettivo consiste nel fornire analisi e informazioni sul controllo degli armamenti, ai fini del disarmo, incluse quelle relative ai costi umani e all’impatto ambientale dell’impiego degli armamenti in questione.

Quali esseri umani votati, sempre che tali s’intenda essere, alla conoscenza, disponiamo delle potenzialità di scegliere. In proposito, tra le tante, una domanda, che, a mio avviso pecca di retorica, ma, considerato lo status quo internazionale, non è affatto inutile: intendiamo costruire, abbiamo costruito e costruiremo bombe atomiche per decimare altri esseri umani e/o inquinare paesaggi incontaminati ( si veda la Francia e i suoi test di armi nucleari condotti in Algeria e in Polinesia)?

Affrontiamo un secondo esempio, che concerne la chirurgia estetica/plastica. Tale chirurgia fa parte della più ampia chirurgia, senza aggettivi, che, a sua volta, rientra nella medicina. Prima di praticare quest’ultima e/o di dedicarsi alla sua filosofia, spacciandola del tutto erroneamente sotto l’etichetta di filosofia della scienza, occorre chiedersi cos’è la medicina. La risposta maggiormente condivisibile: la medicina non è una scienza, bensì una tecnologia che applica diverse scienze di base (le principali: fisica, biologia, chimica), e ciò vale per ogni specializzazione medica.

Ammesso che la medicina e le sue varie declinazioni/diramazioni rimangono tecnologie, la chirurgia estetica è un’applicazione tecnologica di una tecnologia. Qui l’etica non può non agire. Sebbene pure parecchi maschi (o appartenenti al genere uomo) vi facciano ricorso, tale estetica rimane ambita da gran parte delle appartenenti al sesso femminile e/o al genere donna.  Se è per “migliorare” la propria bellezza, una delle domande, che una qualsiasi femmina-donna dovrebbe sollevare è la seguente: migliorare per piacere di più a se stesse o agli altri? Questa domanda presuppone che si sappia che cos’è la bellezza, o che significhi essere una bella donna. Uno standard contemporaneo che sta andando per la maggiore: alta senza eccessi, bionda, fisico snello e al contempo scolpito, giovane, labbra carnose e sensuali, occhi verdi, seno di una specifica forma e misura. Si tratta di uno standard impositivo che non si riscontra in altri periodi storici del nostro Occidente, né si estende necessariamente oltre.

Cos’è la bellezza? Una domanda rispetto a cui ogni tipologia della medicina non dispone di alcuna risposta, nonostante alcuni medici, superficiali, dogmatici, narcisi dichiarino di possederla, domanda che solleva filosoficamente il problema della consapevolezza delle donne: riconosceranno dopo la loro identità e la loro bellezza, che non deve corrispondere ad alcun stereotipo vigente e perlopiù irraggiungibile anche col ricorso alla chirurgia estetica/plastica ?

Cos’è la bellezza? Chiediamolo alla filosofia, a partire da Platone stando a cui la bellezza è mescolare in giuste proporzioni il finito e l’infinito, e qui il problema esula da ogni stereotipo in voga.

Va sé che occorra proseguire oltre queste mie concise iniziali, doverose precisazioni, senza salti eccessivi però e difatti si passa da Platone ad Aristotele. Traducendo in parole forti quanto quest’ultimo sostiene nel Primo libro della Metafisica, non aspirare alla conoscenza rappresenta un sorta di omicidio della nostra umanità.

Il valore conferito alle acquisizioni scientifiche ci conduce a chiarire le nostre ampie e palesi ambizioni a conoscere, e, dunque, a crescere. In un discorso del 1947, Enrico Fermi ci sollecita a riflettere: “La professione del ricercatore deve tornare alla sua tradizione di ricerca per l’amore di scoprire nuove verità. Poiché in tutte le direzioni siamo circondati dall’ignoto e la vocazione dell’uomo di scienza è di spostare in avanti le frontiere della nostra conoscenza in tutte le direzioni, non solo in quelle che promettono più immediati compensi o applausi”.

Quel “deve tornare” non lascia perplessità, con un richiamo preciso al dovere: rileva che nel 1947 non tutti i ricercatori erano “puliti”, non tutti gli scienziati erano e rimangono alieni dalla rincorsa alla fama, al successo, al potere, obiettivi per cui non esitano neanche a scannarsi a vicenda, cosicché le frodi, e più in generale le violazioni dell’integrità scientifica, sono diventate endemiche nella ricerca internazionale. Si ricordi, per esempio, l’eclatante caso dell’articolo apparso su “Nature” e in seguito ritirato sulle cellule Stap (cellule indotte a tornare allo stato staminale mediante esposizione a batteri o a particolari condizioni ambientali): il supervisore della ricerca, il giapponese Sasai, si è suicidato.

Non si può negare che alcune posizioni filosofiche e scientifiche propugnino una sorta di diffidenza nei confronti della ricerca scientifiche e delle scienze. Vi è chi sottolinea come le scienze abbiamo condotto in alcune aree alla disumanizzazione del lavoro, chi incrimina le scienze per il fatto di minacciare la fede religiosa (infischiandosene del fatto che le nostre private ingiustificate credenze non dovrebbero mai interferire con conoscenze, ricerca scientifica, scienze); vi è chi rintraccia nella scienza una manifestazione del pensiero “occidentale” e uno strumento deplorevole della dominio occidentale sulle culture “altre”.

Al di là dello stabilire se questi siano demeriti effettivi della scienza, o letture viziate di essa, quasi tutti noi – che si sia detrattori o estimatori della scienza – non abbiamo difficoltà ad ammettere che la scienza spicchi tra le imprese umane. Non è forse la scienza ad aver trasformato in modo radicale la nostra conoscenza dell’esistenza quotidiana? E non è forse la scienza a modificare con costanza la nostra visione del mondo e di noi stessi, conducendoci a nutrire credenze e ad acquisire conoscenze a cui non saremmo mai giunti altrimenti?

Viene allora da chiedersi “che cos’è la scienza?”, anche al fine di operare una distinzione tra quanto è scienza e quanto scienza non è. In termini piuttosto generici, si può rispondere che la scienza (le scienze), a differenza di altre imprese umane, tecnologia/gie incluse, si avvale di un metodo rigoroso, oggettivo o intersoggettivo, che privilegia la razionalità sull’emotività e che trascende le idiosincrasie individuali e collettive nel tentativo di offrire un patrimonio conoscitivo comune a tutta l’umanità.

24 settembre 2020, Nicla Vassallo