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Speciale figli in provetta: cosa permette la legge italiana?

By 7 Maggio 2013Giugno 7th, 2013Salute

Come far nascere i bambini in Italia secondo la legge sulla fecondazione medicalmente assistita? 

“Ama Nutri cresci – Nutri la tua fertilità” dedica uno Speciale alla Legge n. 40 del 2004 ed al sistema normativo italiano che regola la fecondazione medicalmente assistita e la possibilità di avere figli in provetta. Sabino Maria Frassà intervista la Professoressa Avvocato Marilisa D’Amico su 5 punti:

  1. Come funzionava prima della Legge n. 40 del 2004?
  2. Quali problemi ha determinato l’entrata in vigore della legge n. 40 del 2004 (ovodonazione omologa, eterologa, diagnosi pre-impianto)?
  3. Cosa è cambiato dopo la sentenza n. 151/2009 della Corte costituzionale?
  4. Le questioni ancora irrisolte: il divieto assoluto di fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo
  5. Approfondimento: l’accesso alle tecniche di procreazione artificiale per le coppie fertili.
 L’obiettivo è quello di chiarire a chi vorrebbe un figlio cosa si può fare e cosa invece non si può fare in Italia.

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1. Il panorama normativo previgente

Nel 1978 nasce Louise Brown, la prima “bambina in provetta”. Anche in Italia si sviluppano diversi centri in cui è possibile avere figli attraverso tecniche di fecondazione medicalmente assistita tanto di tipo omologo, quanto (a seguito del passaggio da fecondazione artificiale intracorporea a fecondazione artificiale extracorporea in vitro) di tipo eterologo.

[googleplusone size=”standard” lang=”it”]Fino al 2004 (con la Legge n. 40) l’Italia però non regola tali pratiche.

Durante tale vuoto normativo, un ruolo centrale è stato svolto dal Codice di Deontologia Medica, approvato dalla Federazione Nazionale dell’Ordine dei Medici e degli Odontoiatri nell’ottobre del 1998, che specificatamente si occupa delle norme comportamentali nell’ambito delle tecniche di fecondazione medicalmente assistita (art. 42).Più in particolare, il codice di autoregolamentazione si preoccupava di individuare le finalità di tipo terapeutico delle tecniche di fecondazione artificiale. Tali tecniche venivano, infatti, correttamente ricondotte nel novero dei trattamenti terapeutici finalizzati ad ovviare ad una patologia, ossia a rimuovere le  cause impeditive della procreazione.

Questo aspetto è particolarmente importante, se si considera il disinteresse con cui la legge n. 40/2004 guarda alla tutela del diritto fondamentale alla salute, della donna e della coppia, e, più in generale, l’impostazione ideologica e distorta di un legislatore, che concepisce il tema della procreazione artificiale come una questione essenzialmente etico-morale, rischiosa per la stessa tenuta della società.

Fino all’entrata in vigore della legge n. 40/2004, quindi, le coppie sterili o infertili avevano la possibilità, sulla base del quadro clinico loro diagnosticato dal medico, di valersi della tecnica scientificamente più idonea al proprio caso concreto, nel rispetto dei limiti posti dal codice deontologico medico.

  

2. Quali problemi comporta l’approvazione della legge n. 40 nel 2004?

Punto di partenza delle riflessioni che seguiranno, intorno agli effetti che la legge n. 40/2004 ha prodotto sulla fruibilità delle tecniche di procreazione artificiale, è costituito dalla sostanziale inadeguatezza dell’apparato normativo apprestato dal legislatore a soddisfare la finalità dichiarata, ossia quella di ovviare ai problemi di sterilità e infertilità di cui siano affette le coppie (art. 1).

Si assiste, pertanto, con l’entrata in vigore della legge ad una forte compressione delle possibilità offerte alle coppie sterili e infertili di procreare, in netto contrasto con la prassi applicativa precedente.

Sotto questo profilo, sono almeno tre gli aspetti sui quali soffermarsi.

  1. SOLO TECNICHE DI TIPO OMOLOGO: limitazione delle tecniche di procreazione artificiale ammesse alle sole tecniche di tipo omologo. Si tratta di una soluzione irragionevole, in considerazione della finalità della legge, che esclude dalla possibilità di avere accesso alle tecniche di procreazione artificiale tutte quelle coppie, il cui quadro clinico richieda necessariamente il ricorso alla donazione di gameti esterni alla coppia (c.d. fecondazione di tipo eterologo). Nell’ambito delle tecniche di tipo omologo, poi, il legislatore aveva originariamente stabilito anche un limite rigido di embrioni da destinare all’impianto (“non superiore a tre”), così circoscrivendo ulteriormente l’utilizzabilità delle tecniche medesime, ancorché consentite. Si trattava, infatti, di un numero troppo elevato per le giovani donne, a rischio di parti plurigemellari, e troppo ridotto per quelle in età avanzata, con bassissime probabilità di ottenere una gravidanza. Tale limite, quindi, espressione di un bilanciamento tra diritti che assegnava all’embrione una posizione d’indubbia prevalenza, frustrava le possibilità di successo delle tecniche c.d. omologhe, esponendo le donne a gravi rischi per la propria salute psico-fisica ed esautorando il medico dall’esercizio del suo ruolo. Un ulteriore elemento che conferma, quindi, come l’intento sotteso alla scelta di regolamentare l’accesso alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita fosse non tanto quello di consentire il superamento di una patologia, quanto piuttosto quello di circoscriverne l’accesso a pochissimi casi, attraverso una tecnica legislativa fatta di limiti, divieti e sanzioni. Da quest’avversione “mascherata” nei confronti di tecniche, che consentono un superamento del carattere esclusivamente naturale della procreazione, è discesa l’opzione legislazione a favore del divieto assoluto di fecondazione medicalmente assistita c.d. eterologa (art. 4, comma 3). Per le coppie a cui venga diagnosticato un grado di patologia particolarmente grave, ovvero che si trovino nell’impossibilità di produrre gameti fecondabili artificialmente, la legge n. 40/2004 non appresta alcun rimedio, lasciandole sole e precludendo ogni possibilità di beneficiare di un progresso scientifico, che pure offre soluzioni scientificamente soddisfacenti.
  2. DIAGNOSI PRE-IMPIANTO: in estrema sintesi, può inoltre ricavarsi dalle ricadute che le limitazioni alla ricerca scientifica e sperimentale sugli embrioni (art. 13) hanno avuto, in particolare, sul tema dell’accesso all’esame diagnostico della diagnosi genetica pre-impianto.Pur in assenza di un esplicito divieto in tal senso, le prime questioni sorte sull’applicazione della legge n. 40/2004 hanno, infatti, riguardato l’ammissibilità o meno di tale strumento, successivamente – come si vedrà – risolte in senso affermativo dalla Corte costituzionale.
  3. COPPIE FERTILI E FECONDAZIONE: infine, sorge con riferimento all’esclusione dall’accesso alle tecniche di procreazione artificiale delle coppie fertili. Nella scelta di circoscrivere le finalità dell’accesso alle tecniche di procreazione artificiale al superamento di patologie quali sterilità e infertilità, il legislatore ha volutamente omesso di considerare il dramma quotidiano delle coppie portatrici sane di malattie a trasmissione genetica. Coppie condannate a non avere figli propri o a scegliere di averne al rischio che siano gravemente malati. Più in particolare, per le coppie fertili l’accesso alle tecniche di procreazione artificiale significa possibilità di valersi dello strumento diagnostico della diagnosi genetica pre-impianto. In tale prospettiva, infatti, la diagnosi genetica pre-impianto costituisce il solo strumento diagnostico, che consente alle coppie fertili di conoscere in anticipo lo stato di salute dell’embrione, scongiurando così l’ipotesi di dover incorrere in un’interruzione volontaria di gravidanza.

In conclusione, è evidente come il legislatore del 2004 abbia accolto solo formalmente l’idea della finalità terapeutica della fecondazione medicalmente assistita, attraverso un impianto normativo che ne limita fortemente l’utilizzabilità e che giunge sino a escluderne il rilievo sotto il profilo della prevenzione della trasmissione di malattie geneticamente trasmissibili.

 

3. Cosa è cambiato dopo la sentenza n. 151/2009 della Corte costituzionale?

Uno dei passaggi più significativi nella vicenda della legge sulla fecondazione medicalmente assistita si deve all’intervento del Giudice costituzionale con sentenza n. 151 del 2009. In quella decisione, la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della norma della legge, che, nell’ambito delle tecniche di tipo omologo, limitava a 3 il numero massimo di embrioni destinati all’impianto (art. 14, comma 2).

Più in particolare, la Corte costituzionale ha stabilito, da un lato, che la previsione di un limite rigido si ripercuotesse negativamente sul diritto alla salute della donna, ma, più fondamentalmente, che la tutela assoluta assegnata all’embrione dal legislatore dovesse essere adeguatamente bilanciata con un diritto “nuovo”, le giuste esigenze della procreazione.

In relazione al primo aspetto, la Corte osservava, infatti, che “[i]l limite legislativo in esame finisce […] per un verso, per favorire […] l’aumento dei rischi di insorgenza di patologie che a tale iperstimolazione sono collegate; per altro verso, determina, in quelle ipotesi in cui maggiori siano le possibilità di attecchimento, un pregiudizio di diverso tipo alla salute della donna e del feto, in presenza di gravidanze plurime”.

La Corte concludeva, quindi, nel senso che spetta al libero apprezzamento del medico l’individuazione del numero “strettamente necessario” di embrioni da destinarsi all’impianto. L’importanza della decisione della Corte costituzionale, n. 151 del 2009, può essere letta sotto svariati profili. Più in particolare, può prendersi le mosse da due aspetti, che si colgono in relazione ai rapporti tra questa pronuncia e le posizioni rispettivamente delle coppie, da un lato, e del personale medico-sanitario, dall’altro.

Con riferimento alle coppie, la pronuncia della Corte costituzionale – che non dichiara incostituzionale l’intero comma secondo dell’articolo 14, ma solo una sua parte – nel delegare al medico ogni scelta in ordine al numero di embrioni da impiantare, ha inciso notevolmente sull’efficacia delle tecniche di tipo omologo praticate in Italia.

A seguito della sentenza della Corte costituzionale si è, dunque, assistito ad un progressivo incremento delle gravidanze ottenute da tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo omologo e, sotto altro versante, ad una drastica riduzione della percentuale di coppie costrette a recarsi all’estero per sottoporsi a tali trattamenti.

Per quanto attiene, invece, alla posizione del medico, la modifica della norma, nel senso del riconoscimento di uno spazio di valutazione discrezionale del singolo caso concreto, ha ricondotto al medico ogni scelta in materia di pratica terapeutica. L’eliminazione del limite rigido dei tre embrioni ha, dunque, consentito al medico di “tornare a fare il medico”, compiendo, in piena autonomia, sotto la sua responsabilità e con il consenso del paziente, le proprie scelte professionali.

Da ultimo, il rilievo della decisione del Giudice costituzionale si lega non soltanto al tema dei limiti, cui era sottoposta la fecondazione di tipo omologo, bensì anche a quelli a cui risultava assoggettata la ricerca scientifica e sperimentale sugli embrioni. Più in particolare, ci si riferisce alla delicata questione del divieto – peraltro, non espressamente previsto dalla legge – della diagnosi genetica pre-impianto, avversata dal legislatore del 2004, in quanto ritenuta foriera di generare il rischio di derive eugenetiche. La Corte costituzionale, nel dichiarare che l’impianto degli embrioni fecondati “debba essere effettuato senza pregiudizio per la salute della donna” (così, Corte cost., sent. n. 151/2009), ha implicitamente risolto, nel senso della sua ammissibilità, anche la questione relativa all’esistenza o meno di un divieto di accesso alla diagnosi genetica pre-impianto risultante dalla legge. Nel confermare l’impostazione accolta da alcuni giudici comuni nei primi anni di applicazione della legge, la modifica dell’art. 14 della legge consente, ad oggi, per le coppie che hanno accesso alle tecniche di procreazione artificiale – segnatamente, coppie sterili e infertili – di avvalersi di tale strumento di diagnosi.

 

 4. Le questioni ancora irrisolte: il divieto assoluto di fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo

 La complessità delle problematiche poste dalla legge sulla fecondazione medicalmente assistita emerge in tutta la sua drammaticità con riferimento ad almeno due questioni fondamentali tuttora irrisolte. Ci si riferisce, in primo luogo, alla previsione di cui all’articolo 4, comma 3, della legge, che sancisce il divieto assoluto di fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo; in secondo luogo, a quelle disposizioni della legge che, nell’individuare i requisiti di accesso alle tecniche di procreazione artificiale, ne precludono il ricorso alle coppie fertili, ma portatrici sane di malattie a trasmissione genetica.

Per quanto concerne il divieto di fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo, un primo aspetto sul quale soffermarsi concerne la delimitazione dell’oggetto del divieto. Con la previsione dell’articolo 4, comma 3, della legge, il legislatore ha accolto una nozione ampia di fecondazione c.d. eterologa, riferibile a tutte quelle situazioni in cui una coppia eterosessuale, sposata o convivente, intenda accedere a tecniche di procreazione medicalmente assistita senza utilizzare esclusivamente i propri gameti. In altre parole, il divieto si estende a tutti quei casi in cui il grado di patologia di cui sia affetta la coppia si traduca nell’impossibilità, per uno o per entrambi i componenti, di produrre gameti fecondabili artificialmente.

Il carattere assoluto del divieto, che pone l’Italia in una posizione di isolamento rispetto agli altri Stati membri dell’Unione Europea, ha avuto ripercussioni fortemente negative per tutte quelle coppie italiane, sterili e infertili, per le quali la fecondazione c.d. omologa non offre soluzione.

Il primo e più drammatico effetto prodotto dal divieto di fecondazione eterologa è stato, dunque, quello di costringere moltissime coppie a recarsi all’estero per effettuare le tecniche di fecondazione vietate in Italia, dando così origine al fenomeno del c.d. “turismo o esilio procreativo”. Il carattere discriminatorio e gravemente lesivo di principi costituzionali fondamentali della persona e della coppia ha indotto, tra il 2010 e il 2011, alcuni giudici a sollevare la questione di legittimità costituzionale del divieto davanti alla Corte costituzionale. Più in particolare, i giudici rilevavano che il divieto discrimina – in violazione del principio di eguaglianza – tra categorie di coppie sulla base del grado di patologia, consentendo solo alle coppie capaci di produrre gameti fecondabili artificialmente di aver accesso alle tecniche di procreazione artificiale; comprime il diritto fondamentale alla salute, precludendo alle coppie l’accesso all’unico trattamento terapeutico utilizzabile; lede il diritto fondamentale all’autodeterminazione della coppia, in relazione alle scelte procreative e familiari.

Inoltre, i giudici ritenevano il divieto di fecondazione eterologa lesivo del principio costituzionale che impone il rispetto di standard di tutela universali a livello europeo, alla luce di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che aveva stabilito che il divieto di fecondazione eterologa, previsto dalla normativa austriaca, violava il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il principio di non discriminazione (artt. 8 e 14 CEDU).

Successivamente, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, in sede di riesame, è, tuttavia, giunta ad una conclusione opposta, ossia nel senso di escludere la violazione della Convenzione europea da parte della normativa austriaca. La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 150 del 2012, ha, quindi, omesso di pronunciarsi sul merito della questione prospettata, chiedendo ai giudici di valutare nuovamente i profili di dubbia costituzionalità del divieto, quale conseguenza del mutato quadro giurisprudenziale europeo. La non decisione del Giudice costituzionale ha avuto conseguenze pesanti su tutte quelle coppie per le quali, ancora una volta, l’unica soluzione resta la fuga all’estero o la rinuncia alla possibilità di aver un bambino grazie a tecniche impiegate in tutto il mondo.

Di recente, però, una buona notizia. I Tribunali di Milano, di Catania e di Firenze hanno nuovamente sollevato la questione di costituzionalità del divieto di fecondazione eterologa, ritenendo che permangano intatti i dubbi di costituzionalità dello stesso rispetto ai principi europei, nonostante la sentenza della Grande Camera. Bisognerà allora attendere la decisione della Corte costituzionale, nell’auspicio che questa volta non si “tiri indietro”, ma si pronunci nel merito, ponendo finalmente la parola fine alle sofferenze di tante coppie italiane.

 

5. Approfondimento: l’accesso alle tecniche di procreazione artificiale per le coppie fertili.

L’altra fondamentale questione aperta riguarda, come anticipato, le coppie fertili, ma portatrici sane di malattie a trasmissione genetica. Si tratta, in particolare, di coppie a cui è vietato il ricorso alle tecniche di procreazione artificiale, che il legislatore del 2004 ha riservato in via esclusiva alle sole coppie affette da problemi di sterilità e infertilità. Con riferimento a questa categoria di coppie, la questione concerne l’impossibilità di valersi della diagnosi genetica pre-impianto, che consentirebbe una valutazione dello stato di salute dell’embrione anticipata rispetto a quella offerta da una diagnosi prenatale. Più in particolare, attraverso il ricorso a tecniche di procreazione artificiale e alla diagnosi pre-impianto, la donna non sarebbe destinata ad incorrere in un’interruzione volontaria di gravidanza, qualora la diagnosi prenatale mostrasse l’avvenuto contagio del feto. E’ molto importante ricordare al riguardo quanto stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che, nella sua prima pronuncia sulla legge italiana in materia di fecondazione medicalmente assistita (Costa e Pavan contro Italia), ha affermato che il divieto opposto alle coppie fertili di avere accesso alla diagnosi genetica pre-impianto viola il loro diritto alla vita privata e familiare (art. 8 CEDU).

Più in generale, la Corte europea ha sottolineato l’incoerenza del sistema italiano che, da un lato, fa divieto alla coppia di accedere alle tecniche di procreazione artificiale e, tramite queste, alla diagnosi genetica pre-impianto; dall’altro, consente l’interruzione volontaria di gravidanza in caso di contagio del feto.

Quali saranno le conseguenze della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è questione molto complessa. Ciò che però è molto importante sottolineare è che il Giudice europeo ha riconosciuto come meritevole di tutela il diritto (il desiderio) delle coppie fertili, ma portatrici sane di malattie a trasmissione genetica di avere un figlio avvalendosi delle tecniche di procreazione artificiale e della diagnosi pre-impianto, sanzionando su questo punto la legge italiana.

Marilisa D’Amico

Ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Milano. In qualità di avvocato, ha patrocinato dinanzi alla Corte costituzionale e alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e ha difeso con successo molte questioni concernenti i diritti delle donne, da quella riguardante la legge n. 40 del 2004 sulla fecondazione medicalmente assistita, a quella sulle Linee guida di Regione Lombardia in tema di interruzione volontaria della gravidanza, a quella, da ultimo, della scarsa presenza di donne nella Giunta della Regione Lombardia e degli enti locali. In particolare, con riferimento alla legge sulla fecondazione medicalmente assistita, ha ottenuto la modifica della legge in relazione al limite rigido dei tre embrioni, dichiarato incostituzionale nel 2009, ed è attualmente impegnata sul fronte del divieto di fecondazione c.d. eterologa, sul quale si attende il pronunciamento della Corte costituzionale.

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