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Le città in estate raccontate dall’arte: luci, silenzi e visioni urbane

By 11 Agosto 2025Cultura

A partire dal Novecento, il rapporto tra estate e città è diventato per l’arte una lente attraverso cui osservare le trasformazioni della modernità: rivoluzione industriale, capitalismo, alienazione dell’individuo.
Senza mai imporsi come tema centrale, l’estate urbana ha offerto spunti visivi e simbolici per indagare le tensioni del vivere contemporaneo.

Luci violente, silenzi dilatati, solitudini improvvise o vitalità notturne raccontano un quotidiano stravolto, spesso in attrito con i ritmi naturali del corpo. In città, l’estate diventa una stagione dell’ambivalenza: pausa e alienazione, saturazione e vuoto. Una soglia sospesa tra presenza e smarrimento.

Lo spazio urbano si trasfigura in paesaggio interiore, in cui architetture, corpi e ombre parlano più del vissuto che del visibile.

Attraverso opere diverse per epoca, stile e linguaggio, l’arte restituisce una città estiva che non è solo sfondo, ma riflesso della condizione umana: può essere calore e vita (Bellows), isolamento e attesa (Hopper), mistero e sospensione (de Chirico), ordine immobile (Donghi), desiderio e superficie (Hockney).

George Bellows – Summer Night, Riverside Drive (1909)

Inconsueta ma emblematica, l’apertura del Novecento artistico americano si annuncia con una scena urbana intensa e vitale. In Summer Night, Riverside Drive, George Bellows ritrae una notte d’estate a New York piena di energia e movimento. Le strade si animano di famiglie, bambini, conversazioni, mentre il vento muove le fronde degli alberi e le luci artificiali tingono l’asfalto e i volti di riflessi caldi.

Bellows, tra i maggiori esponenti dell’Ashcan School, si concentra sulla vita reale della città, lontana dai toni idealizzati o mondani. Ritrae la dimensione umana e popolare dell’estate urbana, con pennellate dinamiche e una composizione che mette in scena la collettività nello spazio pubblico.

In quest’opera, il calore dell’estate non è solo atmosferico: è calore sociale, è presenza viva. La città diventa spazio condiviso, luogo di incontro e vitalità spontanea. È un’estate vissuta, non sognata né meditata, ma partecipata.

George Wesley Bellow, Summer Night, 1909, Columbus Museum of Art

Giorgio de Chirico – La vita silenziosa delle città, Una grande piazza

Giorgio de Chirico, Piazza d’Italia, 1913.

Con Giorgio de Chirico l’estate si trasforma in enigma metafisico. Le sue città sono piazze deserte, dominate da torri rosse, porticati infiniti e ombre lunghissime che allungano il tempo più che lo spazio.
In Una grande piazza, il sole batte su facciate bianche e strutture geometriche; un monumento equestre si nasconde in parte dietro il portico di destra, come se stesse scomparendo nella memoria. La piazza è vuota, ma ogni elemento sembra sospeso, carico di una tensione invisibile.

In molte opere del ciclo metafisico, tra cui La nostalgia dell’infinito, Piazza d’Italia o Il sogno trasparente, l’estate è evocata dalla luce chiara e immobile, ma è un’estate che non scalda.
De Chirico dipinge città immaginate, sogni di città. Le architetture sono familiari e insieme irreali. Il tempo sembra fermo, e la luce — netta ma fredda — non racconta il calore, ma la distanza.
La città è svuotata, non vissuta: è memoria, premonizione o sogno antico. Un’estate che si vive con gli occhi socchiusi, nel silenzio.

Giorgio De Chirico, Torre rossa (1913).

Antonio Donghi – Paesaggio (1932)

Con il suo stile nitido, sorvegliato e formalmente impeccabile, Antonio Donghi rappresenta una città in apparente equilibrio, sospesa tra ordine e silenzio. In Paesaggio (1932), le architetture sono lineari, il cielo terso, le strade deserte. Nessuna figura umana interrompe l’immobilità della scena. L’immagine evoca un’estate silenziosa, che somiglia a un fermo immagine. La composizione ha la compostezza di una scenografia teatrale: tutto è esatto, misurato, ma anche rigido, come cristallizzato in un tempo bloccato.

Questo linguaggio visivo, così essenziale e austero, si inserisce nel contesto culturale dell’Italia fascista, con cui Donghi fu esplicitamente allineato: iscritto al Partito Nazionale Fascista fin dal 1925, fu figura regolarmente presente nei saloni ufficiali del regime, dalle Biennali di Venezia alle Quadriennali di Roma. Pur non essendo un artista di propaganda, la sua pittura fu perfettamente coerente con l’estetica del classicismo disciplinato e del controllo formale promossi dal fascismo: equilibrio, semplificazione, sospensione narrativa.

In Paesaggio, non c’è malinconia né narrazione: solo una pausa obbligata, in cui la città trattiene il respiro sotto una luce cristallina e impersonale. L’estate, qui, è vuoto sorvegliato, assenza di conflitto, ordine senza vita. Una visione che riflette e restituisce, anche sul piano simbolico, una visione ideologica del mondo.

Antonio Donghi, Paesaggio, 1932

Edward Hopper – Summer in the City (1949)

Con Edward Hopper (leggi l’articolo di approfondimento), l’estate si fa interiore e muta. In Summer in the City, una donna siede su un letto in una stanza colpita da una luce verticale e violenta. La finestra è aperta, ma la città non entra. È fuori, lontana, come inaccessibile.
L’opera, parte delle “pitture della finestra”, riflette una condizione esistenziale di isolamento. La luce del sole, intensa e invadente, diventa agente di solitudine più che di vita.

In altre opere estive come Morning Sun (1952), A Woman in the Sun (1961), Second Story Sunlight (1960) o Summer Evening, Hopper torna a parlare della solitudine urbana in piena luce. Figure femminili o maschili restano immobili, esposte, pensierose. La città è quasi sempre fuori campo, percepita, ma non vissuta.
L’estate, nei suoi quadri, è una stagione psicologica, fatta di attese, riflessioni, distanze.

David Hockney – Beverly Hills Housewife (1966–67), A Bigger Splash (1967), Peter Getting Out of Nick’s Pool (1966)

A Los Angeles, David Hockney dà all’estate una veste più luminosa, seducente e patinata. Le piscine private dei quartieri residenziali diventano simboli pop dell’estate americana: corpi, sole, silenzio, desiderio.

In A Bigger Splash, il tuffo è già avvenuto, ma il corpo non c’è: resta solo lo schizzo. In Peter Getting Out of Nick’s Pool, un giovane uomo emerge dall’acqua, avvolto dalla luce.
In Beverly Hills Housewife, una donna elegante osserva il proprio giardino: tutto è ordinato, bello, ma fermo.
Hockney dipinge un’estate privata, borghese, dove la luce non manca mai, ma forse manca qualcosa sotto la superficie. Il glamour visivo nasconde, forse, un’interrogazione più profonda: cosa resta, oltre lo splash?

DAVID HOCKNEY, A Bigger Splash, 1967. Courtesy Tate Britain

Sabino Maria Frassà, 12 agosto 2025