“Nulla o quasi sembra perciò essere cambiato: il macho con la pistola ha sostituito il principe azzurro con la spada.”
Il 25 novembre è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Non tutti sanno che la data fu scelta dalle Nazioni Unite per ricordare il brutale assassinio di tre donne, che difesero fino alla morte la propria libertà e la democrazia. Era il 25 novembre 1960 quando le tre sorelle Mirabal furono trucidate a bastonate a causa del loro coraggio e della loro resistenza contro il brutale regime di Rafael Leónidas Trujillo, dittatore della Repubblica Dominicana dal 1930 al 1961. Il 25 novembre dovrebbe perciò essere una giornata che celebra il coraggio e il ruolo attivo delle donne nella società e non tanto la loro (presunta) debolezza e il loro essere vittime “indifese” della violenza maschile.
Oggi assistiamo a un crescendo di storie di cronaca che ci fanno percepire le donne come vittime “esemplari” di una violenza diventata parte integrante del nostro vivere quotidiano. La violenza sulle donne purtroppo non è però un fenomeno contemporaneo, ma serpeggia da millenni. I mezzi di comunicazione ne amplificano la eco. Il movimento #metoo, che ha coinvolto sopratutto i campi dell’arte e dello show business, ha finalmente tolto il velo della vergogna delle vittime, ma non crediamo possa far diminuire il fenomeno, le cui radici sono profondissime e capillari.
Oltre alla violenza “fuori casa”, preoccupano e rattristano il persistere di casi e storie di violenza domestica. E’ urgente chiedersi prima di tutto perché molte donne arrivino al punto di essere uccise e non riescano a “scappare” prima che sia troppo tardi. E’ difficile trovare una risposta univoca. Forse succede perché molte donne credono e sognano l’”amore buono” delle fiabe con cui sono state cresciute. Le donne molte volte si vedono e/o si rappresentano “passive” e bisognose di essere salvate. Pur di esser “salvate” alcune donne sono disposte addirittura a subire e sopportare anche la violenza, da parte di chi dovrebbe semplicemente amarle. Altre donne credono che il proprio amore “salvifico” possa cambiare l’altra persona. Il problema di base è che spesso le donne non si “amano” e non comprendono che possono e devono salvarsi da sole: è un circolo vizioso da cui si esce a fatica.
L’indiziato principale non è tanto la debolezza dei “maschi”, quanto una cultura che non li vede come esseri umani, ma li etichetta come “maschi”. Viviamo in una cultura ancora o forse di nuovo machista. Il passato non aiuta ed è pieno anche di teorici dell’inferiorità della donna: ricordiamoci per citarne uno che Aristotele sosteneva che la donna fosse passiva, in contrapposizione all’uomo “attivo”. Guardando oggi la TV nostrana e il linguaggio di tanta politica, assistiamo a un colpevole indugio ed elogio della violenza, a un ammiccamento costante a modelli macisti del passato, per cui la violenza è la risposta alla violenza. Così nella maggior parte dei casi i modelli che si propongono alle nuove generazioni prevedono un vincitore violento, iper-virile, iper-muscoloso e iper-armato. Nulla o quasi sembra perciò essere cambiato: il macho con la pistola ha sostituito il principe azzurro con la spada.
Può quindi un’opera d’arte, un articolo o un film convincere una donna a ribellarsi a tale stereotipo e ad allontanare da sé quell’“amore” violento, che amore non è?
Ovviamente non è una singola opera, un singolo movimento o una singola vittoria di un processo a far cambiare il mondo, ma è il sistema socio-culturale che può arrivare al midollo machista di questo Mondo. L’insieme del coraggio delle donne è la vera risposta. Siano perciò sempre di più e sempre più frequenti le artiste che parlano non solo e non tanto della violenza contro le donne, quanto della loro visione del mondo violento. Il loro esser protagoniste, allorché indipendenti e “attive”, sarà da modello ed esempio di “emancipazione” per le altre donne. Essere donna il 25 novembre non dovrebbe voler dire solo denunciare. L’essere donna dovrebbe significare proporre una propria visione del mondo al di fuori tanto della cultura machista, quanto di mode e trend culturali vetero-femministi. L’essere donna dovrebbe significare vedersi e amarsi come essere umano al di là e a prescindere del proprio genere.
Vogliamo perciò concludere questa nostra riflessione soffermandoci su un esempio positivo, un’opera d’arte intitolata “Orfeo” di un’artista che affronta in modo originale, forte ed efficace il tema della violenza collegato all’amore. “Orfeo” è l’ultima scultura dell’artista Giulia Manfredi, giovane brillante scultrice che con le sue resine vinse il premio CRAMUM nel 2017. In “Orfeo” la resina intrappola, blocca e rende immobile e immortale nella loro bellezza dei delicati fiori di yucca. Il tema dell’amore violento pervade quest’opera e il mito di Orfeo, che racconta dell’impossibile tentativo del giovane protagonista di riportare in vita la sua amata Euridice. Tutti i protagonisti sono travolti da una spirale di violenza claustrofobica: la moglie di Ade, Persefone, è stata rapita e portata a vivere negli inferi a fianco del suo sequestratore; Euridice muore morsa da un serpente mentre sta fuggendo da un amante non corrisposto; lo stesso Orfeo è vittima infine di un orribile delitto quando, in seguito alla morte della sua amata Euridice, viene fatto a pezzi dalle baccanti, colpevole di essersi rifiutato di partecipare con loro a un rito orgiastico. Ma, come ricorda l’artista Giulia Manfredi, “la fine della storia non è la morte dei due protagonisti, ma l’amore – buono – che va oltre la morte: la testa di Orfeo, gettata nel fiume Evros, continua a cantare l’amore infinito per Euridice“.
Tutta la violenza che circonda questo mito non riesce a spezzare infine l’amore buono: ciò che rimane e va al di là della morte è il coraggio dell’ essere “umani” fino alla fine. Ne scaturisce un messaggio di speranza: l’amore puro e buono può vincere, basta non assuefarsi né arrendersi … nemmeno alla violenza.