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FRANCO BATTIATO A BAGHDAD CANTÒ PER CHI LA PENSAVA DIVERSAMENTE DA LUI

By 19 Maggio 2021CRAMUM, Cultura
Libro Cramum Cucurucucu

Ricordiamo il Maestro Franco Battiato che ieri ci ha lasciati condividendo il testo di Alba Solaro pubblicato nel 2019 all’interno del libro Cramum “Cuccurucucu”. Alba Solaro racconta viaggio fatto insieme a Battiato nel 1992 a Bagdad in occasione del celebre contento donato alla popolazione irachena alla fine della 1° Guerra del Golfo.


FRANCO BATTIATO A BAGHDAD CANTÒ PER CHI LA PENSAVA DIVERSAMENTE DA LUI

Alba Solaro in “Cuccurucucu”, libro a cura di Sabino Maria Frassà, edito Cramum, 2019

Dalle finestre dell’hotel Al-Rashid di Baghdad si vedevano le palme. Franco Battiato si incantava a guardarle. «La prima mattina che ho aperto la finestra della mia stanza, è stata un’emozione fortissima. Palme grandi che sembravano essersi passate il testimone per mille anni: il sogno di una civiltà antichissima, finalmente intorno a me». Erano sopravvissute anche ai bombardamenti: neanche due anni prima proprio da quelle finestre gli inviati di guerra trasmettevano le immagini di Desert Storm, le scie verde fosforescente dei missili nella notte, come in un video game. La notizia di un concerto di Franco Battiato a Baghdad era arrivata poche settimane prima, inattesa e irrinunciabile. Battiato che va a cantare per Saddam Hussein? Ovviamente no, era lì perché «non c’è niente che impedisca a una persona di aiutare anche chi la pensa in modo diverso». Così, una mattina di inizio dicembre del 1992 siamo atterrati tutti ad Amman, in Giordania, per quella singolare missione umanitaria. Non c’era altro modo di raggiungere l’Iraq, l’embargo che aveva isolato il paese dopo la prima guerra del Golfo, era esattamente il motivo per cui eravamo lì. Toccava affrontare la lunga traversata dell’autostrada che dalla capitale giordana va fino al cuore della Mesopotamia, una lunga striscia di asfalto e intorno solo deserto. Siamo partiti all’alba distribuiti in una lunga carovana di taxi con a bordo Battiato, i suoi musicisti, il maestro Giusto Pio, Antonio Ballista, i discografici, gli addetti stampa e poi cameraman, giornalisti, fotografi, interpreti, i volontari di Un ponte per Baghdad che portavano container pieni di medicine e latte in polvere per gli ospedali iracheni. I successi neomelodici mediorientali che le radio dei taxi diffondevano implacabili rendevano il viaggio interminabile; arrivare nel caos di Baghdad, traffico, polvere, densità umana, era stato un sollievo. La città non aveva che poche cicatrici rimaste dalla guerra, cosa che ci aveva colpito. Eravamo andati in giro per il centro, guidati attraverso le vie del bazar, a fare shopping di antichi tappeti da preghiera e monili coi lapislazzuli; Battiato chiacchierava con i mercanti, curioso di tutto. Nelle strade, nelle hall dei teatri e dei palazzi governativi campeggiavano i ritratti del raìs Saddam Hussein in divisa, con la kefiah, in abiti civili, serio, sorridente: ho ancora in qualche cassetto i selfie che ci facemmo con le macchinette usa e getta portate da casa. Battiato era emozionato e felice. A tavola raccontava di aver detto subito sì quando lo avevano chiamato dall’ambasciata irachena per quel concerto, «io che non dico mai subito di sì a nulla». E invece. Cos’era stato? C’era un filo che correva invisibile, suggestivo, il profondo rispetto per la vita umana e la profonda empatia e compassione, etimologicamente inteso come “condivisione del dolore”. E poi Mesopotamia è di pochissimi anni prima, incisa nell’89; un’elegia al nostro transito terrestre, le voglie, le gioie, i piaceri e i dispiaceri, “tutte le impressioni che ho avuto in questa vita” e che sono destinati a dissolversi, mentre la “valle tra i due fiumi della Mesopotamia / che vide alle sue rive Isacco di Ninive” è sempre là; come le alte palme sotto le finestre dell’hotel Al-Rashid. Battiato l’aveva cantanta, quell’elegia, seduto sui tappeti al centro del palco dell’austero Teatro Nazionale di Baghdad, attorniato dall’Orchestra Sinfonica Nazionale irachena, col vice primo ministro Tareq Aziz fra il pubblico. Aveva fatto anche un brano dal Gilgamesh, la sua opera ispirata alla mitologia assiro-babilonese; e una versione in arabo de L’ombra della luce, con un consulente iracheno e uno palestinese per la pronuncia (il pomeriggio alle prove era stato disciplinato ma a un certo punto era sbottato «e lasciatemi anche sbagliare»). Era venuto fino a Baghdad, ci diceva, perché voleva vedere coi suoi occhi, dei media non si fidava. Essere strumentalizzato dal regime non lo preoccupava: «Mi dicevano: stai andando all’inferno. Io rispondevo: perché, qui da noi è il paradiso?».

La commozione più grande fu l’incontro con gli orchestrali iracheni; Battiato gli aveva portato spartiti, ance, corde per i violini, un piccolo gesto per rompere il senso di isolamento. L’embargo non blocca mai soltanto il traffico delle merci, questo avevamo visto coi nostri occhi; blocca anche la circolazione delle idee, della cultura, della musica, di tanti beni immateriali e non per questo meno essenziali: «Se non arrivano libri, non c’ è possibilità di continuare a studiare; e se la cultura, le notizie non arrivano è difficile che un regime si possa contrastare». Per mandare i nostri articoli usammo il telex che c’era negli uffici dell’hotel. L’ultima sera, prima di partire, Battiato ragionava su quello che avevamo vissuto. «La scelta finale di un individuo», mi aveva detto, «è tra violenza e apparente passività. Se vengono a casa mia con un mitra e dicono questa non è più casa tua, posso fuggire in montagna a combattere oppure cercare un altro luogo dove ricominciare. Oggi come oggi io opto per la seconda possibilità. Ma sia ben chiaro: il rifiuto della violenza non è necessariamente codardia. Anzi per me è una categoria dello spirito che si ritrova in tutti grandi mistici della storia come il persiano Al Junayd che morì proprio qui a Baghdad nel 950 e che disse una cosa per me di sconvolgente intelligenza: “L’acqua prende il colore del suo contenitore”. Chi vive nella trascendenza ha una concezione fluida dell’essere, dove per la violenza non c’è posto. È come un fiume che quando trova un masso semplicemente devia il suo corso».

In copertina un’opera di Andreas Senoner