Elsa Barbieri racconta il senso più intimo della mostra GOLD, da lei curata ospitata fino al 9 marzo 2025 nel Museo d’Arte Contemporanea di Cavalese di cui è direttrice. Il percorso espositivo ospita le opere tessili di Thomas De Falco , classe 1982. Il testo che accompagna la mostra e che riportiamo in versione integrale si intitola “era il mondo intero, per sempre e sempre”.
In principio era l’albero. La sfera di pietra sfrecciava nel vuoto. Sotto la crosta c’era il fuoco. Le rocce si liquefacevano, i gas ribollivano. Bolle d’aria bruciavano la crosta. Densa acqua salata aderiva alla sfera rotante. Il fango ci scivolava sopra e nel fango le forme mutavano. Ogni punto su una sfera è il centro e l’albero era al centro. Teneva insieme il mondo, nell’aria, nella terra, nella luce, nel buio, nella mente.
Canzoni, videogame, libri e fumetti delle culture nordiche narrano che l’universo sia sostenuto dai rami di un frassino colossale. Ma Yggdrasil, questo è il suo nome, non è il solo albero attorno al quale si sono sviluppate culture, energie, fedi, religioni e mitologie. Al fascino simbolico delle radici ben piantate nel terreno, delle fronde svettanti in direzione del cielo o dei tronchi e dei rami perfetti per riprodurre lo scorrere del tempo, è difficile rimanere immuni. Persino la scienza non ci è riuscita, lo stesso Charles Darwin, padre dell’evoluzione per la selezione naturale, cedette alla metafora alborea e appuntò in un suo taccuino «Gli esseri organizzati rappresentano un albero».[2]
Non cercherò di insegnare a riconoscere la differenza tra un frassino o una mandragora – «Pitagora la definì “antropomorfa”, l’agronomo latino Lucio Columella “semihomo”, e Alberto Magno poté scrivere che le mandragore riproducono l’umanità (…)»[3] – e nemmeno proverò a costruire una somma di leggende e curiosità, eppure gli alberi li premetto, per avvertire di come essi finiscano per riguardare tutto, dalla storia all’ecologia, dal passato al futuro della Terra, finanche a Gold – While all Flow’rs and all Trees do close To weave the Garlands of repose (Andrew Marvell). Nella mostra personale di Thomas De Falco, di fatto, gli alberi ci sono, benché non in senso figurato e nonostante non siano i veri protagonisti: al centro di Gold c’è una foresta che prende forma da un’inedita serie di sculture tessili (Tree) realizzate in cotone, seta e fili d’oro ed evocative degli organi vegetali, dunque radici, fusti e foglie, ma anche semi, funghi e rami; che abitare significa un continuo dialogo, perché contamina l’immaginario di chi impara a farsi sedurre. Come la foresta era alta e la foresta era larga e la foresta era il mondo intero, per sempre e sempre per Ray Bradbury, così la natura per Thomas De Falco è il centro della sua ricerca, che nasce come se fosse un cordone ombelicale, come un organo che cresce, come arterie e vene che diramano. O, ancora, come fili, vulnerabili – in questo sta la loro forza – e fluttuanti, come tutto ciò che è vitale.
Certo, può essere, talvolta, difficile, se non impossibile, pensare alla natura o parlare di natura senza ritrovarsi al centro di un groviglio, che per l’appunto è costituito da radici, da rami, da alberi e da storie. Storie ed esseri umani, di fronte a cui, troppo spesso, non ci fermiamo, o che, altrettanto spesso, non osserviamo e non capiamo. Thomas invece guarda da vicino questo groviglio – che qui sfuma nel bianco, oro, rosso, nero, blu, marrone o rosa – e desidera che lo facciamo tutti: guardarlo da vicino, provare a entrarci, esplorarlo a fondo. Anche a costo di utilizzare uno stratagemma. Quale? «Gold, l’oro, è un colore che associamo alla bellezza, alla ricchezza, all’opulenza, per questo voglio intitolare così la mostra, è uno stratagemma»[4]. Così dicendo Thomas ci ha regalato una preziosa chiave di lettura per comprendere che lui, nutrendosi delle proprie esperienze di vita, ha il coraggio di andare dove nessuno va, alla scoperta di un silenzio che avvolge un malessere, un disagio, di cui si fa portavoce con un fare calmo e poderoso e vulnerabile, non debole né fragile. Ma che c’entra, ora, la vulnerabilità?
Noi tutti siamo vulnerabili e proprio in quanto tali e perché tali continuiamo e continueremo a divenire noi stessi finché saremo vivi. È un fatto evidente e originario, come che la vulnerabilità sia una ferita generativa alla stregua del taglio dell’ombelico, senza cui non ci sarebbe nascita. Le cuciture a vista sulle sculture di Thomas non sono ricami, sono invece proprio questa ferita, che è travaglio, e che ci lega, indissolubilmente, a un’immagine assai eloquente della vulnerabilità: l’incavo del ventre materno, ben in risalto in Body e in animal body : woman (Egypt-Iran), opera che De Falco ha realizzato a New York nel corso di uno studio ricerca nella galleria egizia del Metropolitan Museum. Questi arazzi, tessuti con telaio verticale, danno alla vulnerabilità un luogo, l’inizio, e un nome, quello di madre, mistero ineliminabile di ogni manifestazione, di ogni epifania e di ogni apparire. Ugo Morelli scrive «madre: l’accogliente, prima che la penetrabile; la prima forma della vita, che se fosse invulnerabile non sarebbe tale avendo come paradossale caratteristica la sterilità dell’impenetrabile». E che cos’è, questa prima forma di vita, se non un seme, quel seme (Seed), che Thomas ha realizzato per l’ercker del museo? Certo, dico seme, ma con un salto – che spero mi concediate, come se esistesse un’unica grande rete trofica in cui ogni specie libera dalle etichette di prede e predatori trova posto – potrei dire anche uova. Uova di dinosauro, per esempio, come quelle che qui, in Val di Fiemme, sembra si siano schiuse nelle stanze del museo, lasciando liberi i dinosauri che trovano rappresentazione per mano di Abigail, Maria, Sharitah, Phillip, Kamoga Bakka e Adina[5] di stanziarsi e abitare il groviglio, che è condizione di ogni nascita presente e futura.
Come il groviglio, che allora accoglie e contiene, così Gold è raggiungibile, accessibile e vulnerabile, perché scopre ciò che sta per avvenire, perché si espone e anche ci espone a una dimensione dove il sentire non offusca il pensare e il pensare non ottunde il sentire: se non lo fossimo, esposti, saremmo indifferenti o irraggiungibili. Siamo, dunque, esseri intersoggettivi e nella nostra intersoggettività – intersoggettività ed esposizione, dunque vulnerabilità, sono parte della stessa dinamica esistenziale – costruiamo la nostra individuazione. Ma anche libertà, sembra sottendere il manifesto di Thomas “WO-MAN FREEDOM” che accompagna l’omonima performance e funge da traccia che resta a noi e per noi, pubblico più vasto. Come nell’eseguire performativo, così anche nello sviluppo espositivo di Gold, è mia premura dare risalto a come Thomas abbia saputo condurci nel margine più o meno stretto, ma densamente ricco di possibilità, che si apre l’idea e l’occasione concreta. Che cosa sia l’occasione lo spiega Hans-Georg Gadamer, affermando che il significato di qualcosa è determinato nel suo contenuto dall’occasione a cui deve servire, in modo che in tale contenuto c’è di più di quanto vi sarebbe indipendentemente da tale occasione (…) Rimane decisivo il fatto che l’occasionalità così definita è contenuta nella stessa intenzione dell’opera e non le è solo imposta dall’interprete. (…) È l’opera stessa che, nell’evento dell’esecuzione, accade. La sua essenza stessa è di essere occasionale in modo che solo l’occasione dell’esecuzione la fa parlare e fa venire in luce ciò che in essa è contenuto[6].
Certo, Gadamer riferiva questo discorso al significato di una performance, ma se guardiamo alle opere World, Nature e Cement Garden, che hanno significato alla loro prima esposizione e significano oggi, comprendiamo che significheranno una terza volta, una quarta, fino all’ennesima, senza alcun mero ritorno all’identico. Di loro, e di Gold resta di fatto una present-azione dell’hic et nunc, riproposto in un movimento reale dove mentre tutti i flussi e tutti gli alberi si chiudono per intrecciare le ghirlande del riposo, siamo legittimati a chiederci perché cerchiamo di rimuovere, e rimuoviamo, quella vulnerabilità che originariamente ci appartiene. È una delle nostre più tenaci rimozioni, forse è proprio questo ciò di cui Thomas si fa portavoce: nasciamo da una ferita, siamo feriti, e per ciò stesso sensibili, e siamo esposti, per ciò accessibili, come il suo groviglio ci aiuta a comprendere.
[1] A. S. Byatt, Ragnarök. La fine degli dei, tr. it. Anna Nadotti e Fausto Galuzzi, Einaudi, 2013
[2] Charles Darwin, Taccuini, Taccuino B, tr. it. I.C. Blum, Laterza, 2008
[3] Jorge Luis Borges, Il libro degli esseri immaginari, tr. it. Ilide Carmignani, Adelphi, 2006
[4] Thomas De Falco
[5] I disegni sono stati realizzati dai bambini dell’organizzazione no profit / The drawings were made by the children of the non-profit organisation Save Shine Africa
[6] Hans-Georg Gadamer, in Deriu F., Mediologia della perfomance. Arti performatiche nell’epoca della riproducibilità digitale, Le Lettere, 2013