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Emilio Isgrò si racconta: da Fontana al “giovane” Cattelan …

By 14 Maggio 2016Giugno 28th, 2017CRAMUM
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Emilio Isgrò, Ancora Istanbul, opera in mostra al 4° premio cramum "A chi parla l'arte contemporanea?"

Emilio Isgrò, Ancora Istanbul, opera in mostra al 4° premio cramum “A chi parla l’arte contemporanea?”

[blockquote align=”right” variation=”purple”]<<Gli italiani non possono che definirsi cristiani, ma tutti gli artisti italiani non possono che definirsi “figli” di Fontana, anche se forse la mia simpatia è più vicina all’immaginario dei fratelli Savinio e de Chirico.>>[/blockquote]

Sabino Maria Frassà (SMF): Non deve essere facile trovare buoni maestri quando si fa un lavoro originale come il tuo. Prima di te semplicemente nessuno aveva cancellato i libri come forma di espressione artistica. Ognuno di noi è però inevitabilmente influenzato dalla propria formazione, famiglia o altro: tu da chi sei stato influenzato?

Emilio Isgrò (E.I.): Gli italiani non possono che definirsi cristiani, ma tutti gli artisti italiani non possono che definirsi “figli” di Fontana, anche se forse la mia simpatia è più vicina all’immaginario dei fratelli Savinio e de Chirico. Non si tratta però di punti di riferimento o ispirazioni ma termini di paragone per la loro maturità e ricerca artistica. Del resto, se ho avuto dei maestri, lo sono stati filosofi, musicisti o scrittori, come Pirandello e Gorgia da Lentini. I miei maestri sono stati coloro di cui mi affascinava la filosofia, il pensiero.

 

SMF: La musica ha influenzato la tua arte?
E.I.: Sì, molto. Negli anni Sessanta la musica contemporanea aveva quell’indipendenza e quella libertà di sperimentare che l’arte non poteva permettersi: sto pensando alla musica di Berio, Nono o Stockhausen e alla Biennale di musica contemporanea di Venezia. La musica contemporanea mi fece capire quanto non fossi preparato a capirla, ma anche quanto in fondo ciò non contasse troppo. Un bravo artista studia, impara per tutta la sua vita, ma non deve sapere tutto: l’arte non nasce da una piena comprensione, ma dal cercare la luce nel buio. L’arte deve parlare di ciò che le persone conoscono, ma che non sanno riconoscere in modo autonomo. Per me fare l’artista significa questo, avere ed essere in grado di comunicare nuove idee, che permettano alle persone di conoscere qualcosa di più su di sé, sul mondo o sull’universo. Per questo l’artista dovrebbe cercare il proprio spazio al di fuori del perimetro del consenso e ciò non vuol dire provocare, perché oggi la provocazione è leva anch’essa per ottenere consenso.

Emilio Isgrò

Emilio Isgrò

SMF: Qual è la ricetta per i giovani artisti per trovare questo “spazio”?
E.I.: Fatica, costanza e valorizzazione della propria unicità. In fondo che un artista fatichi fa anche bene: l’arte è anarchica e dovrebbe rispondere a delle logiche di darwinismo meritocratico per cui sopravvive solo ciò che veramente vale. Io sono cresciuto in una famiglia in cui si respirava cultura e ciò conta moltissimo, ma mi ricordo sempre che mio padre, ebanista, mi obbligava a lavorare con lui per farmi comprendere quanto fossi fortunato a poter studiare. Trovare il proprio spazio è del resto sempre funzione del tempo che si vive, ai miei tempi non era più facile, ma era diverso: eravamo abituati all’idea dell’insuccesso, che l’arte non desse da vivere. Chi faceva l’artista non lo faceva per il successo, ma per creare qualcosa di nuovo. Gli ultimi trent’anni hanno sdoganato tale visione e professionalizzato l’artista, sempre più mondano e manager di se stesso.

SMF: Il suo percorso artistico è caratterizzato da una forte coerenza: com’è cresciuto dalle prime cancellazioni del 1964 ad oggi?

E.I.: La vera svolta fu all’inizio. Dopo una delle prime mostre percepii il pericolo di andare nella direzione del dadaismo. L’arte per l’arte corre il rischio di essere sterile. Mi resi conto che la dimensione nichilista non era la mia, che anzi volevo che il mio lavoro fosse un mattone per la ricostruzione. Da tale volontà di differenziarmi da certa arte concettuale algida anglosassone, nacque un cambiamento che vivo ancora oggi: l’avvicinamento alla mteria. Capii subito che il mio limite di artista concettuale era il rapporto con la materia: se all’inizio volevo andare oltre la materia, smaterializzando l’opera, mi resi poi conto che era più importante andare oltre quello che non sapevo fare. Ora mi appassiona profondamente tutto ciò che è materia.
 

SMF: Un giovane artista che trova interessante?
E.I.: Il paradosso oggi è che nell’arte come nella vita abbiamo dilatato il tempo e l’idea di giovinezza. Ad esempio trovo molto interessante il lavoro di Maurizio Cattelan, ma nella mia testa è sempre un giovane, famosissimo artista. Lo considero giovane perché mi aspetto sempre che faccia qualcosa di nuovo, ma forse è proprio questo il paradosso e la malattia del nostro tempo.

Emilio Isgrò è stato intervistato nel suo studio milanese da Sabino Maria Frassà il 5 aprile 2016. L’artista ha rivisto e approvato il testo il 14 aprile 2016. Emilio Isgrò è stato intervistato  dopo aver aderito al progetto cramum, diretto da Sabino Maria Frassà e aver preso parte alla mostra internazionale “A chi parla l’arte contemporanea?” a cura di Sabino Maria Frassà. La mostra, promossa dall’Associazione cramum e dalla Fondazione Giorgio Pardi, si è tenuta a Palazzo Isimbardi dal 13 al 23 maggio 2016. Il progetto è .

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Emilio Isgrò nasce a Barcellona Pozzo di Gotto (ME) nel 1937, e si trasferisce a Milano nel 1956. Da subito accompagna la produzione artistica con l’attività di scrittore e poeta. Nel 1964 realizza le prime Cancellature. Nel 1972 è invitato alla XXXVI Biennale d’Arte di Venezia, a cui parteciperà anche nel 1978, nel 1986 e nel 1993. Nel 2016 entra a far parte della giuria del premio cramum.