[margin10] Cosa resta alla fine di tante e numerose giornate contro?
Perché alcune minoranze sono più “rumorose” di altre?
Perché le minoranze raramente sono solidali con le discriminazioni altrui?
Non sarebbe forse preferibile progettare una “Settimana dell’inclusione”, della tolleranza e fratellanza/sorellanza, ovvero un momento onnicomprensivo più lungo, che entri in tutte le agende socio-culturali e soprattutto in quelle politiche, in cui analizzare lo stato dell’arte su ogni discriminazione e/o mostrare come le peculiarità dei singoli siano la forza della nostra specie e siano l’unica premessa per un futuro sostenibile?
Vi sono parti del mondo in cui si muore solo per il sospetto di essere persone omosessuali; vi sono posti in cui ci sono nuovi lager per omosessuali; anche l’Occidente non affronta né riconosce in modo omogeneo la parità nei diritti delle persone omosessuali, bisessuali, transessuali, trans gender. I diritti di libertà conquistati ieri e oggi non devono esser dati per scontati perché non è detto che ci siano domani. Button Text
Ciò è innegabile, ma l’uso stesso e sempre più frequente della parola “contro” dovrebbe far riflettere. Un certo tipo di comunicazione-informazione basata sull’urlare, denunciare e indugiare nel mostrare la discriminazione e la violenza rischia di cedere il fianco allo zelo voyeuristico del diritto/dovere di cronaca, e rischia soprattutto di perdere di efficacia e persino di non conferire merito o degno ricordo alle vittime di qualsiasi ingiustizia e discriminazione. Si determina anzi un perverso gioco al rialzo che porta all’assuefazione, alla rassegnazione indolente e assopita, che si risveglia una volta all’anno in occasione delle giornate mondiali contro questa e quell’altra ingiustizia. Le giornate contro le discriminazioni rischiano così di trasformarsi in una sorta di soluzione minimalista ai sensi di colpa di una società impotente al cospetto delle troppe ingiustizie umane perpetuate nel mondo.
Parlando di discriminazioni, si è portati a indicare e distinguere tra “buoni” e “cattivi“.
Ma siamo tutti vittime. Siamo tutti “diversi” da qualcun altro e prima o poi siamo tutti minoranza in qualche modo e misura.
Ma siamo tutti carnefici. Anche nei paesi occidentali occorre prestare estrema attenzione a non sottovalutare l’omofobia, al pari di ogni altra discriminazione. Oggi più che mai il ritorno al conformismo, o meglio all’etica della convenienza, sono un pericolo reale. Un conto è palesare e manifestare il proprio dissenso contro l’omofobia in questa giornata; diverso è ogni altro giorno dell’anno assestarsi col pensiero e con le azioni non omofobi, in quanto, in passato come oggi, la scelta più facile rimane l’adeguarsi al sentire comune, al branco (qualsiasi sia la sua “taglia” e “forma”).
Quanti di noi si professano non-omofobi, purché loro figlio/a non sia omosessuale?
Quando si parla di omosessualità e di minoranze spesso si parla anche di pubblico e privato.
Ma dove ritroviamo questa divisione? Sotto lo zerbino? Nel confine della propria famiglia (quale tipo di famiglia)?
[pullquote2 align=”left”]Citazione del giorno: “… era la normalità che l’attraeva; e tanto più in quanto gli si rivelava non casuale né affidata alle preferenze e alle inclinazioni naturali dell’animo bensì prestabilita, imparziale, indifferente ai gusti individuali, limitata e sorretta da regole indiscutibili e tutte rivolte ad un fine unico.” (da Il Conformista, 1951, Alberto Moravia, Valentino Bompiani Editore, pag. 29)[/pullquote2]
Per chi scrive la sobrietà oggi più che mai è un valore, ma riflettiamo sul fatto che creare imbarazzo letteralmente significhi interporre un ostacolo, qualcosa d’ingombrante. Molti e molte si recepiscono imbarazzati/e da manifestazioni di affetto, passione, amore tra persone dello stesso sesso se non anche di sesso opposto.
Ma cosa sussiste di ingombrante e di imbarazzante nell’amore tra persone adulte?
A chi fa notare che la “diversità”, qualsiasi essa sia, sia fonte di imbarazzo, bisognerebbe chiedere: “A voi cosa cambia se ci si ama?”
La vera domanda è quindi: in un mondo così violento e urlato, siamo infine preparati e pronti veramente ad amare?
Amare non è gridare. Amare non è ostentare o imporre il proprio modo di vivere. Amare è prima di tutto provare il piacere di ascoltare l'”altro”, ciò che è altro da sé. Ad amare però bisogna essere educati (dalla famiglia – qualsiasi forma abbia – dalla scuola, dalla società) e la stessa parola “amore” è usata/abusata, ma forse infine mai compresa. Assistiamo così ad un crescente e reale autismo sociale, per cui l’unico criterio di valutazione finale è l’inesorabile constatazione di ciò che è “diverso” da noi, di ciò che non è “naturale” e non è “normale”. E chi determina cosa sia “diverso”, “normale” e “naturale” è spesso semplicemente chi grida più forte.
Genova – Milano, 1° maggio 2017